Risposta al “Libro nero del comunismo”

“Un fenomeno simile, nella storia dell’umanità, non si dimentica più perché ha rivelato nella natura umana una disposizione, una facoltà di progredire quale non sarebbe riuscita a fare emergere una politica, a furia di sottigliezze, dal corso precedente degli avvenimenti: solo la natura e la libertà riunite nella specie umana secondo i principi del diritto erano in grado di annunciarla, anche se, quanto al tempo, in un modo indeterminato e come avvenimento contingente. Tuttavia, se pure lo scopo preso di mira da questo avvenimento non era ancora ben realizzato, quand’anche la rivoluzione o la riforma della costituzione di un popolo fossero alla fine fallite, o se, trascorso un determinato lasso di tempo, tutto ripiombasse nel solco di prima (come pretendono ora alcuni politici), questa profezia filosofica non per questo perderebbe la propria forza. Perché si tratta di un avvenimento troppo importante, troppo frammisto agli interessi dell’umanità e con un’influenza troppo vasta su ogni parte del mondo per non dovere essere riportato alla memoria dei popoli, ove occorrano circostanze favorevoli, e ricordato nel caso in cui riprendessero nuovi analoghi tentativi”.
Immanuel Kant, Il Conflitto delle facoltà in tre sezioni, 1798

“Questo è il problema da dirimere: questo corso degli avvenimenti è davvero in continuità, oppure si tratta di due serie di avvenimenti intrinsecamente connessi, ma che nonostante tutto rimandano a vite diverse, a due distinti mondi morali e politici? Se non riusciamo a dirimere questa questione, ancora oggi possiamo inavvertitamente diventare pericolosi. Perché il passato non meditato riaccende i peggiori pregiudizi e impedisce alla coscienza storica di penetrare in ambito politico”.
Michail Guefter, “Staline est mort hier”, in L’Homme et la Société, 1987

Nel 1798, in pieno periodo di reazione, Immanuel Kant, scriveva, a proposito della Rivoluzione francese, che un avvenimento del genere, al di là degli insuccessi e degli arretramenti, non si dimentica, perché in quella frattura del corso normale del tempo si è potuta scorgere, sia pure fuggevolmente, la promessa di un’umanità liberata.

Kant aveva ragione. Oggi, per noi, il problema è se anche la grande promessa legata all’Ottobre, quello sconvolgimento del mondo intero, quel bagliore sprigionato dalle tenebre al momento della prima carneficina mondiale, potrà essere “affidato alla memoria” dai popoli. È la posta in gioco non di un “dovere di memoria” (concetto ormai svilito), ma di un lavoro e di una battaglia di memoria.

L’ottantesimo anniversario dell’Ottobre 1917 rischiava di passare inosservato. La pubblicazione del Libro nero del comunismo,1 se non altro, avrà avuto il merito di rimettere sul tappeto la “questione Ottobre”, uno di quei grandi contenziosi su cui non ci sarà mai possibilità di riconciliazione. Chiaramente preannunciato da Stéphane Courtois, artefice dell’assemblaggio dell’opera, lo scopo dell’operazione è quello di introdurre un rapporto di stretta continuità, una perfetta coerenza tra comunismo e stalinismo, tra Lenin e Stalin, tra l’irraggiarsi della rivoluzione originaria e il glaciale crepuscolo del Gulag: “Stalinista e comunista sono la stessa cosa”, scrive sul Journal du dimanche (9 novembre 1997). È vitale rispondere senza tergiversare alla domanda posta dal grande storico sovietico Michail Guefter: “Questo è il problema da dirimere: questo corso degli avvenimenti è davvero in continuità, oppure si tratta di due serie di avvenimenti intrinsecamente connessi, ma che nonostante tutto rimandano a vite diverse, a due distinti mondi morali e politici?”.Un interrogativo effettivamente decisivo, che domina sia l’intelligibilità del secolo che finisce sia i nostri impegni in quello tormentato che si annuncia: se lo stalinismo altro non era – come alcuni sostengono o ammettono – se non una semplice “deviazione” o un “tragico prolungamento” del progetto comunista, se ne dovranno ricavare le conclusioni più drastiche circa il progetto stesso.

Un processo da fine secolo

È del resto ciò a cui puntano i promotori del Libro nero. Ci si potrebbe effettivamente stupire per il tono da guerra fredda, piuttosto anacronistico, di Stéphane Courtois e di certi articoli. Mentre non si fa che proclamare che al capitalismo, pudicamente ribattezzato “democrazia di mercato”, non c’è alternativa, che il capitalismo risulta il vincitore assoluto alla fine del secolo, l’accanimento rivela in realtà una grande paura repressa: il timore che appaiano tanto più clamorosi i vizi e le piaghe del sistema in quanto esso ha perso, con il suo doppione burocratico, il proprio alibi. È quindi importante procedere alla demonizzazione preventiva di tutto ciò che potrebbe consentire di intravedere un possibile avvenire diverso. Proprio nel momento in cui la sua contraffazione staliniana svanisce nella sconfitta, in cui ha fine la sua confisca burocratica, lo spettro del comunismo può in effetti tornare a ossessionare il mondo.

Quanti ex stalinisti zelanti, non essendo stati in grado di distinguere stalinismo e comunismo, hanno smesso di essere comunisti cessando di essere stalinisti, per convertirsi alla causa liberale con il fervore dei neofiti? Stalinismo e comunismo non solo sono due cose distinte, ma sono anche irriducibilmente antagonistici. E richiamare questa differenza non è il minore dei doveri che abbiamo nei confronti delle innumerevoli vittime comuniste dello stalinismo. Lo stalinismo non è una variante del comunismo, ma il nome proprio della controrivoluzione burocratica. Il fatto che militanti sinceri, sotto l’urgenza della lotta antinazista, o sballottati dalle conseguenze della crisi mondiale fra le due guerre, non ne abbiano preso immediatamente coscienza e abbiano continuato generosamente a offrire le loro vite dilaniate, non cambia la sostanza della cosa. Si tratta esattamente, per rispondere all’interrogativo di Michail Guefter, di due mondi politici e morali distinti e inconciliabili. E questa risposta è agli antipodi delle conclusioni di Stéphane Courtois nel Libro nero. Egli nega a volte di avere rivendicato un Tribunale di Norimberga per il comunismo, forse perché preoccupato di riprendere al riguardo una formulazione cara a Le Pen. Eppure, la sceneggiatura del Libro nero tende non solo a cancellare le differenze tra nazismo e comunismo, ma a operare una banalizzazione, suggerendo come il confronto rigorosamente “oggettivo” e contabile volga a favore del primo: 25 milioni di morti contro 100 milioni, 20 anni di terrore contro 60. L’originaria fascetta di presentazione del libro annunciava vistosamente 100 milioni di morti. Lo sconto degli autori perviene a 85 milioni. Il punto non è che Courtois si discosti di 15 milioni, ma che manovra in modo losco questi cadaveri: la sua macabra contabilità da grossista, che mescola paesi, epoche, cause e campi, contiene qualcosa di cinico e di profondamente irrispettoso nei confronti delle vittime stesse. Nel caso dell’Unione Sovietica, essa approda a un totale di 20 milioni di vittime, senza che si sappia che cosa la cifra nasconda esattamente. Nel suo contributo al Libro nero, Nicolas Werth2 corregge piuttosto al ribasso le stime approssimative correnti, sostenendo che, in base a dati d’archivio precisi, gli storici valutano oggi a 690 000 le vittime delle grandi purghe del 1936-1938. Già di per sé è una cifra enorme, a parte l’orrore. Egli arriva, inoltre, a un numero di detenuti del Gulag di circa 2 milioni in media all’anno, di cui una quota superiore a quel che non si pensasse ha ottenuto la libertà, sostituita da nuovi arrivi. Per raggiungere il totale di 20 milioni di morti occorrerebbe quindi aggiungere alle cifre delle purghe e del Gulag quelle delle due grandi carestie (5 milioni nel 1921-1922 e 6milioni nel 1932-1933) e quelle della guerra civile, di cui gli autori del Libro nero non possono naturalmente dimostrare che si tratti di “crimini dello stalinismo”, cioè di uno sterminio deciso a freddo.

Con analoghi procediment iideologici non sarebbe difficile scrivere un Libro rosso dei crimini del capitale, sommandole vittime dei saccheggie degli stermini coloniali dei popoli, quelle delle guerre mondiali, del martirologio del lavoro, delle epidemie, delle carestie endemiche, non solo di ieri ma anche di oggi. Solo per il XX secolo, sarebbe possibile elencare agevolmente svariate centinaia di milioni di vittime. Nella seconda parte troppo spesso dimenticata della sua trilogia,3 Hannah Arendt scorgeva nell’imperialismo moderno la matrice del totalitarismo e nei campi di concentramento coloniali in Africa il preludio di ben altri campi.

Se non si tratta più di esaminare regimi, periodi, conflitti determinati, ma di incriminare un’idea, quanti morti si potrebbero imputare, nei secoli, al cristianesimo o ai Vangeli, al liberalismo e al liberismo economico?

Anche accettando i conti fantasiosi di Courtois, il capitalismo sarebbe costato alla Russia ben più dei 20 milioni di morti dello stalinismo, comprese le due guerre mondiali, in questo secolo.

I crimini dello stalinismo sono sufficientemente spaventosi, sufficientemente massicci, sufficientemente orribili per cui non c’è alcun bisogno di aggiungerne, a meno che non si voglia deliberatamente confondere le piste della storia, così come si è voluto farlo in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese, in cui certi storici hanno reso spesso e volentieri la rivoluzione responsabile non solo del Terrore o della Vandea, ma anche dei morti del terrore bianco, di quelli nella guerra contro l’intervento della coalizione, o addirittura di quelli delle vittime delle guerre napoleoniche!

Che sia legittimo e utile paragonare nazismo e stalinismo non è un’originalità (Trotskij non parlava forse di Hitler e Stalin come di due “astri gemelli”?). Ma paragonare non significa ragionare e le differenze sono altrettanto importanti delle analogie. Il regime nazista ha realizzato il suo programma e mantenuto le sue promesse. Il regime staliniano si è costruito in contrasto con il progetto di emancipazione comunista. Per affermarsi ha dovuto stritolare i propri militanti. Quante dissidenze, quante opposizioni illustrano, tra le due guerre, questo tragico rovesciamento? Suicidi Majakovskij, Joffe, Tucholsky, Benjamin e tanti altri.

Si ritrovano, tra i nazisti, queste crisi di coscienza di fronte alle rovine di un ideale tradito e deformato? La Germania di Hitler non aveva bisogno, come la Russia di Stalin, di trasformarsi nel “paese della grande menzogna”: i nazisti erano fieri della propria opera, mentre i burocrati non potevano guardarsi in faccia nello specchio del comunismo originario.

Diluendo nel tempo e nello spazio la storia concreta, spoliticizzandola deliberatamente, per scelta di metodo (NicolasWerth rivendica apertamente “l’accantonamento in secondo piano della storia politica”, per meglio seguire il filo lineare di una storia decontestualizzata della repressione), quello che resta è soltanto un teatro d’ombre. Allora, non si tratta più di istruire il processo a un regime, a un’epoca, a un carnefice bene individuato, ma a un’idea: l’idea che uccide.

Nel ramo, certi giornalisti se la sono spassata un mondo. Jacques Amalric registra soddisfatto “la realtà generata da un’utopia mortifera” (Libération, 6 novembre 1997). Philippe Cusin inventa un’eredità concettuale: “È inscritto nel gene del comunismo:è naturale uccidere” (Le Figaro, 5 novembre 1997). A quando l’eutanasia concettuale contro il gene del crimine? Istruire il processo non a fatti, a crimini precisi, ma a un’idea, significa ineluttabilmente introdurre la colpevolezza collettiva e il delitto intenzionale. Il tribunale della storia, secondo Courtois, non solo è retroattivo, ma diventa pericolosamente preventivo, quando egli lamenta che “l’elaborazione del lutto dell’idea di rivoluzione sia ancora ben lungi dall’essere completata” e si indigna per il fatto che “alcuni gruppi dichiaratamente rivoluzionari siano ancora attivi e si esprimano in piena legalità”!

Il pentitismo va sicuramente di moda. Che Furet, o Le RoyLadurie, la Kriegel o lo stesso Courtois non siano mai venuti a capo dell’elaborazione del loro lutto, che si trascinino come una palla al piede la propria cattiva coscienza di stalinisti attardati, che la loro espiazione si cuocia al calore del risentimento, riguarda loro. Ma chi è rimasto comunista senza avere mai celebrato il piccolo padre dei popoli né salmodiato il libriccino rosso del grande timoniere, di che cosa pretende che dovrebbe pentirsi, signor Courtois?

Sicuramente ci si può essere sbagliati ogni tanto. Ma, vedendo come va il mondo, non ci si è di certo sbagliati né sulla causa né sull’avversario.

Per capire le tragedie del secolo che si sta concludendo e ricavarne insegnamenti utili per il futuro, occorre andare al di là dello scenario ideologico, sgomberare le ombre che vi si agitano, per immergersi nelle profondità della storia e seguire la logica degli scontri politici in cui si decise la scelta tra le varie possibili.

Rivoluzione o colpo di Stato?

Un ritorno critico sulla Rivoluzione russa, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Ottobre, ha suscitato una serie di interrogativi, di ordine sia storico sia programmatico. Sit ratta di una posta in gioco rilevante. Ne va, né più né meno, della nostra capacità di un futuro aperto all’azione rivoluzionaria, perché non tutti i passati hanno lo stesso futuro. Ora, prima ancora di entrare nella mole dei nuovi documenti accessibili in seguito all’apertura degli archivi sovietici (che consentiranno sicuramente nuovi chiarimenti e susciteranno nuove controversie), la discussione verte sul prêt-à-penser ideologico dominante, di cui il recente omaggio funebre a François Furet illustra bene l’efficacia. In tempi come questi, di contro riforma e di reazione, non c’è da stupirsi che i nomi di Lenin e di Trotskij diventino impronunciabili, come successe per quelli di Robespierre o di Saint-Just sotto la Restaurazione.

Per cominciare a sgomberare il terreno, conviene riprendere tre concetti oggi largamente recepiti.

– In fatto di rivoluzione, quella di Ottobre sarebbe piuttosto la denominazione emblematica di un complotto o di un colpo di Stato minoritario che ha imposto d’un tratto, dall’alto, la propria concezione autoritaria dell’organizzazione sociale, a vantaggio di un nuovo strato privilegiato.

– Tutti gli sviluppi della Rivoluzione russa e le sue disavventure totalitarie sarebbero inscritte in germe, per una sorta di peccato originale, nell’idea (o “passione”, secondo Furet) rivoluzionaria: la storia si ridurrebbe allora alla genealogia e al compimento di quest’idea perversa, in sfregio ai grandi sconvolgimenti reali, agli eventi colossali e dall’esito incerto come in qualsiasi lotta.

– Infine, la Rivoluzione russa sarebbe stata condannata a produrre mostri per via di un parto “prematuro” della storia, del tentativo di forzarne il corso e il ritmo quando ancora non esistevano le condizioni oggettive “del superamento del capitalismo”. Anziché avere la saggezza di “autolimitare” i propri progetti, i dirigenti bolscevichi sarebbero stati gli agenti attivi di questi contrattempi.

Un vero e proprio slancio rivoluzionario

La Rivoluzione russa non è il risultato di una cospirazione, ma l’esplosione, nel contesto della guerra, delle contraddizioni accumulatesi a causa del conservatorismo autocratico del regime zarista. All’inizio del secolo, la Russia costituisce una società bloccata, un caso esemplare di “sviluppo diseguale e combinato”, un paese al tempo stesso dominante e dipendente, che combinava i tratti feudali di una campagna in cui la servitù era stata abolita ufficialmente da meno di mezzo secolo, con quelli del capitalismo industriale urbano più concentrato. Grande potenza, essa è tecnologicamente e finanziariamente subordinata (il prestito russo di divertente memoria!). Il cahier de doleances presentato dal pope Gapon al momento della rivoluzione del 1905 è un vero e proprio registro della miseria che regna nel paese degli zar. I tentativi di riforme sono ben presto bloccati dal conservatorismo dell’oligarchia, dall’ostinazione del despota e dall’inconsistenza di una borghesia incalzata dal nascente movimento operaio. I compiti della rivoluzione democratica spettano dunque a una specie di terzo stato in cui, a differenza della Rivoluzione francese, il moderno proletariato, ancorché minoritario, costituisce ormai la punta avanzata più dinamica. In tutto questo, la “sacra Russia” può rappresentare l’ “anello debole” della catena imperialista. La prova della guerra appicca il fuoco a questa polveriera.

Lo sviluppo del processo rivoluzionario, tra il febbraio e l’ottobre del 1917, chiarisce bene che non si tratta di una cospirazione minoritaria di agitatori di professione, ma dell’assimilazione accelerata di un’esperienza politica su scala di massa, di una profonda trasformazione delle coscienze, di uno spostamento costante dei rapporti di forza. Nella sua magistrale Storia della Rivoluzione russa,4 Trotskij analizza minuziosamente questa radicalizzazione, di elezione sindacale in elezione sindacale, di elezione municipale in elezione municipale, fra gli operai, i soldati e i contadini.

Mentre i bolscevichi rappresentavano solo il 13% dei delegati al Congresso dei soviet del giugno: le cose cambiano rapidamente dopo le giornate del luglio e il tentativo di colpo di Stato di Kornilov, essi costituiscono tra il 45% e il 60% in ottobre, al momento del secondo Congresso.

Ben lungi dall’essere un colpo di mano riuscito per la sorpresa, l’insurrezione costituisce dunque lo sbocco e l’epilogo provvisorio di una prova di forza che è maturata nel corso dell’intero anno, durante il quale lo stato d’animo delle masse plebee si è sempre trovato a sinistra dei partiti e dei loro stati maggiori, non solo di quelli socialrivoluzionari ma anche di quelli del Partito bolscevico o di una parte della sua direzione (fino alla decisione – e questa inclusa – dell’insurrezione).

Gli storici sono in genere d’accordo sul fatto che l’insurrezione d’Ottobre sia stata l’epilogo, poco più violento della presa della Bastiglia, di un anno di decomposizione del vecchio regime. Per questo, rispetto alle violenze che abbiamo conosciuto dopo, non è costata molto in vite umane. La “facilità” relativa della presa insurrezionale del potere da parte dei bolscevichi evidenzia l’impotenza della borghesia russa tra febbraio e ottobre, la sua incapacità di rimettere in piedi uno Stato e di costruire sulle rovine dello zarismo un progetto di nazione moderna. La scelta, perciò, non era più tra la rivoluzione e la democrazia, ma tra due soluzioni autoritarie, la rivoluzione e la dittatura militare di Kornilov o di un altro qualsiasi personaggio del genere.

Se si intende per rivoluzione uno slancio di trasformazione proveniente dal basso, determinate aspirazioni profonde del popolo, e non la realizzazione di un qualche piano mirabolante concepito da un’élite illuminata, non c’è dubbio che la Rivoluzione russa sia stato questo, appieno, a partire dai bisogni fondamentali della pace e della terra. Basta andarsi a rivedere le misure legislative assunte nei primi mesi e nel primo anno dal nuovo regime per capire che esse stanno a significare il rovesciamento radicale dei rapporti di proprietà e di potere – a volte più rapidamente di quanto previsto e voluto, a volte anche al di là di quel che non fosse auspicabile – sotto la spinta delle circostanze. Numerosi libri attestano questa frattura nell’ordine mondiale (si vedano I dieci giorni che sconvolsero il mondo, di John Reed) e la sua immediata ripercussione internazionale.

Marc Ferro sottolinea (specie in La rivoluzione del 19175 e in Nascita e crollo del regime comunista in Russia6) come non fossero, al momento, in molti ad avere nostalgia del regime dello zar e a piangere l’ultimo despota. Egli insiste, viceversa, sul rovesciamento del mondo così tipico di una autentica rivoluzione, fin nei dettagli della vita quotidiana: a Odessa, gli studenti impongono agli insegnanti un nuovo programma di storia; a Pietrogrado, alcuni lavoratori costringono i padroni ad apprendere il “nuovo diritto operaio”; nell’esercito, dei soldati invitano alle loro riunioni il cappellano, per “dare un senso nuovo alla sua vita”; in certe scuole, i bambini rivendicano il diritto di imparare la boxe, per farsi sentire e rispettare dai grandi; e così via.

La prova della guerra civile

Lo slancio rivoluzionario delle origini opera ancora, malgrado le condizioni disastrose, durante la guerra civile, a partire dall’estate del 1918. Nel suo contributo, Nicolas Werth elenca in maniera documentata tutte le forze che dovette affrontare il nuovo regime: non solo gli eserciti bianchi di Kolchak e di Denikin, non solo l’intervento straniero franco-britannico, ma anche le massicce sollevazioni contadine contro le requisizioni e le sommosse operaie contro il razionamento. Dalla lettura non si capisce bene dove il potere rivoluzionario abbia potuto attingere la forza per sconfiggere avversari così potenti. Sembrerebbe che si sia trattato del solo effetto del terrore minoritario e dell’arruolamento nei cechisti di un sottoproletariato disposto a tutto. Ma è una spiegazione troppo angusta per dare conto dell’organizzazione, in pochi mesi, dell’Armata Rossa e delle sue vittorie. È più realistico attribuire tutta la sua portata alla guerra civile e ammettere che vi si sono scontrate senza risparmio forze sociali antagoniste.

Secondo gli autori del Libro nero, la guerra civile sarebbe stata voluta dai bolscevichi, e il terrore instaurato a partire dall’estate del 1918 rappresenterebbe la matrice originaria di tutti i crimini commessi in seguito in nome del comunismo. La storia reale, fatta di scontri, di lotte, di incertezze, di vittorie e di sconfitte, non può ridursi alla cupa leggenda dell’autosviluppo del concetto, in cui sarebbe l’idea a generare il mondo.

La guerra civile non è stata voluta ma prevista. È più di una minaccia. Tutte le rivoluzioni, a partire dalla Rivoluzione francese, avevano inculcato questa lezione amara: i movimenti di emancipazione si scontrano con la reazione conservatrice; la controrivoluzione segue la rivoluzione come la sua ombra, nel 1792, quando le truppe di Brunswick marciano su Parigi, nel 1848 al momento dei massacri di giugno (si rileggano, sulla ferocia borghese di allora, Michelet, Flaubert o Renan), al momento della Settimana di sangue nel 1871. La regola non si è mai smentita in seguito, dal pronunciamiento franchista del 1936 al colpo di Stato nell’Indonesia di Suharto (che ha fatto 500 000 morti nel 1965), o a quello di Pinochet in Cile nel 1973. Non diversamente dai rivoluzionari francesi del 1792, i rivoluzionari russi non hanno dichiarato la guerra civile. Non hanno chiamato le truppe francesi e inglesi a intervenire per rovesciarli! A partire dall’estate del 1918, ricorda Nicolas Werth, gli eserciti bianchi erano saldamenti insediati sui tre fronti e i bolscevichi “non controllavano ormai più se non un territorio ridotto alla Moscovia storica”. Le disposizioni del terrore vengono prese in agosto-settembre del 1918, quando l’aggressione straniera e la guerra civile sono cominciate. Analogamente, nella Rivoluzione francese, Danton proclama il terrore per incanalare il terrore popolare spontaneo che esplode con i massacri di settembre, di fronte alla minaccia fatta pesare su Parigi dalle truppe coalizzate di Brunswick. Nicolas Werth ammette dunque che la responsabilità nello scatenare la guerra civile non sta dalla parte della rivoluzione. Se anche gli orrori della guerra civile vengono ripartiti tra “rossi” e “bianchi”, la matrice di tutti i futuri terrori risiederebbe tuttavia in una guerra nascosta, una guerra nella guerra, contro i contadini. Per inserire nel quadro dei crimini del comunismo le vittime della carestia del 1921-1922, Nicolas Werth tende ogni tanto a presentarla come il risultato di una scelta di deliberato sterminio dei contadini.

I documenti sulle repressioni dei villaggi sono spesso schiaccianti. Ma è possibile comunque scindere i due problemi, quello della guerra civile e quello della questione contadina?

Per affrontare l’aggressione, l’Armata Rossa ha dovuto mobilitare in pochi mesi 4 milioni di combattenti, che si sono dovuti equipaggiare e nutrire. In due anni, Pietrogrado e Mosca hanno perso più della metà della popolazione.

L’industria devastata non produceva più nulla. In queste condizioni, per nutrire le città e l’esercito, quale altra soluzione poteva esserci se non le requisizioni?

Si possono sicuramente immaginare altre forme, tenere conto con il tempo che è passato della logica specifica di una polizia politica, dei pericoli dell’arbitrio burocratico esercitato da improvvisati tirannelli. Ma si tratta di una discussione concreta, in termini di scelte politiche, di alternative concepibili di fronte a prove reali, non di giudizi astratti.

All’uscita dalla guerra civile, non è più la base a sorreggere il vertice, ma la volontà del vertice che cerca di trascinare la base. Di qui il meccanismo della sostituzione: il partito si sostituisce al popolo, la burocrazia al partito, l’uomo della provvidenza all’insieme. Durante tale processo, emerge una nuova burocrazia, frutto dell’eredità del vecchio regime e dell’accelerata promozione sociale di nuovi dirigenti. Dopo il massiccio reclutamento della “leva Lenin” nel 1924, le poche migliaia di militanti dell’Ottobre non incidono più molto rispetto ai membri del partito, rispetto alle centinaia di migliaia di nuovi bolscevichi, fra cui figurano carrieristi volati in soccorso alla vittoria ed elementi riciclati della vecchia amministrazione.

La pesante eredità della guerra civile

La guerra civile rappresenta una terribile esperienza fondativa. Crea un’assuefazione disincantata alle forme più estreme e disumane di una violenza che si aggiunge allo scatenarsi della guerra mondiale. Forgia un retaggio di brutalità burocratica di cui Lenin si accorgerà al momento della crisi con i comunisti georgiani e di cui Trotskij renderà conto nel suo Stalin.7 Il “Testamento di Lenin” e il “Diario delle sue segretarie 8” testimoniano, durante la sua agonia, di questa coscienza sofferta del problema. Mentre la rivoluzione è questione che riguarda popoli e moltitudini, Lenin in punto di morte si induce a soppesare vizi e virtù di un pugno di dirigenti, da cui ormai quasi tutto sembra dipendere.

In definitiva, la guerra civile ha significato “un grande balzo all’indietro”, un’“arcaicizzazione” del paese, rispetto al livello di sviluppo raggiunto prima del 1914.

Ha lasciato esangue il paese. Dei 4 milioni di abitanti che contavano Pietrogrado e Mosca all’inizio della rivoluzione ne rimanevano solo 1,7 milioni alla fine della guerra civile. A Pietrogrado, 380 000 operai avevano abbandonato la produzione, per 80 000 che rimanevano. Le città devastate erano diventate parassite dell’agricoltura, costringendo a prelievi d’autorità per gli approvvigionamenti. E l’Armata Rossa raggiungeva un effettivo di 4 milioni. “Quando il nuovo regime riuscì finalmente a guidare il paese verso il suo obiettivo dichiarato”, scrive Moshe Lewin, “il punto di partenza si rivelò ben più arretrato di quanto non lo fosse nel 1917, per non dire nel 1914”. Attraverso la guerra si forgia “un socialismo arretrato” e statuale, un nuovo Stato costruito sulle rovine: “Per la verità, lo Stato si formava in base a uno sviluppo sociale regressivo9”.

Là risiede la radice di fondo della burocratizzazione, di cui certi dirigenti sovietici, incluso Lenin, prendono coscienza molto presto, pur disperandosi di non riuscire ad arginarla. Qui cumulano i loro effetti l’incidenza terribile delle circostanze e l’assenza di cultura democratica.

Non c’è, ad esempio, alcun dubbio che la confusione alimentata, a partire dalla presa del potere, tra lo Stato, il partito e la classe operaia, in nome del rapido scontato deperimento dello Stato stesso e della scomparsa delle contraddizioni in seno al popolo, favorisca notevolmente la statalizzazione della società e non la socializzazione delle funzioni statuali.

L’apprendistato della democrazia è una cosa lunga, difficile. Non procede con lo stesso ritmo dei decreti di riforma economica, tanto più che il paese non possiede tradizioni parlamentari e pluraliste. Richiede tempo, energia e anche mezzi. Il fermento presente nei comitati e nei soviet del 1917 illustra i primi passi di questo apprendistato, durante il quale si va delineando una società civile. Alla prova della guerra civile, la soluzione più facile consiste nel subordinare gli organi del potere popolare, i consigli e i soviet, a un tutore illuminato: il partito. In pratica, consiste anche nel sostituire il principio dell’elezione e del controllo dei responsabili con la loro nomina per iniziativa del partito, a partire dal 1918 in alcuni casi.

Questa logica approda alla fine alla soppressione del pluralismo politico e delle libertà d’opinione indispensabili alla vita democratica, nonché alla sistematica subordinazione del diritto alla forza. L’ingranaggio è tanto più pericoloso in quanto la burocratizzazione non dipende soltanto da una manipolazione dall’alto, ma a volte risponde anche a una richiesta dal basso, a un bisogno d’ordine e di tranquillità che nascono dalle stanchezze per la guerra e la guerra civile, dalle privazioni e dal logoramento, e che le polemiche democratiche, l’agitazione politica, la richiesta costante di responsabilità disturbano.

Marc Ferro ha sottolineato molto pertinentemente nei suoi testi questa dialettica tremenda. Egli ricorda, ad esempio, che esistevano “due centri – democratico – autoritario alla base, centralista-autoritario al vertice” all’inizio della rivoluzione, mentre “ne resta ormai uno solo nel 1939”. Per lui, però, la questione è praticamente risolta in capo a pochi mesi, dal 1918 al 1919, con il deperimento o il riallineamento dei comitati di quartiere e di fabbrica10. Seguendo un analogo approccio, il filosofo Philippe Lacoue-Labarthe è ancora più esplicito, quando dice che il bolscevismo è “controrivoluzionario a partire dal 1920-1921” (cioè fin da prima di Kronstadt)11.

È un problema d’importanza capitale. Non si tratta di contrapporre puntualmente, in modo manicheo, una leggenda aurea del “leninismo sotto Lenin” al leninismo sotto Stalin, i radiosi anni Venti ai cupi anni Trenta, come se nel paese dei soviet niente fosse cominciato a marcire. Naturalmente, la burocratizzazione è all’opera immediatamente; ovviamente, l’attività poliziesca della Ceka ha una sua propria logica; evidentemente, la prigione politica delle isole Solovkisi apre dopo la fine della guerra civile e prima della morte di Lenin; certamente, il pluralismo dei partiti viene soppresso, la libertà di espressione limitata, i diritti democratici in seno allo stesso partito ridimensionati nel X Congresso del 1921.

Ma il processo di quella che noi chiamiamo la “controrivoluzione burocratica” non è un fenomeno semplice, databile, simmetrico all’insurrezione d’Ottobre.

Non avviene in un giorno. Passa attraverso scelte, scontri, avvenimenti. Gli stessi protagonisti hanno continuamente discusso circa la sua periodizzazione, non per gusto di precisione storica, ma per tentare di ricavarne i compiti politici. Testimoni come Rosmer, Eastman, Souvarine, Istrati, Benjamin, Zamjatin e Bulgakov (nella loro lettera a Stalin), la poesia di Majakovskij, i tormenti di Mendelstam o della Cvetajeva, gli appunti di Babel, ecc. possono contribuire a chiarire le molteplici sfaccettature del fenomeno, il suo svilupparsi, il suo avanzare.

Ad esempio, mentre la disastrosa repressione di Kronstadt fa prendere coscienza, nella primavera del 1921, del necessario riorientamento della politica economica, mentre la guerra civile è vittoriosamente conclusa, le libertà democratiche si restringono di nuovo anziché allargarsi: il X Congresso del partito vieta in quel momento tendenze e frazioni.

Con la prospettiva storica acquisita, è necessario ritornare su queste questioni della democrazia rappresentativa, del pluralismo politico, della censura, dello scioglimento dell’Assemblea costituente, per formulare teoricamente i problemi con i quali si sono scontrati i pionieri del socialismo e per meditarne gli insegnamenti. Non c’è dubbio che l’eredità dello zarismo, i quattro anni di massacro mondiale durante i quali si mobilitarono oltre 15 milioni di soldati russi, le violenze e le atrocità della guerra civile, abbiano inciso in modo infinitamente più pesante sul futuro del regime rivoluzionario che non gli errori di dottrina dei suoi dirigenti, per gravi che potessero essere.

In un articolo sulla “Rivoluzione e la legge” pubblicato dalla Pravda dello dicembre 1917 (!), Anatole Lunacharskij, futuro ministro dell’Istruzione, cominciava con una constatazione: “Una società non è un tutto unico”. C’è voluto del tempo e ci sono volute tragedie per ricavare tutte le implicazioni di una frase elementare come questa. Poiché una società non è un tutto unico, neanche dopo il rovesciamento del vecchio ordine, non si può pretendere di socializzare lo Stato per decreto senza rischiare di statizzare la società. Poiché la società non è un tutto unico, i sindacati debbono restare indipendenti dallo Stato e dal partito, i partiti indipendenti dallo Stato. La contraddizione tra gli interessi in atto nella società debbono potersi esprimere tramite una stampa indipendente e attraverso una pluralità di forme rappresentative. Per questo, inoltre, l’autonomia della forma e della norma giuridica deve garantire che il diritto non si riduca all’arbitrio reso perenne della forza.

La difesa del pluralismo politico non è dunque una questione di circostanze, ma una condizione essenziale della democrazia socialista. È la conclusione che Trotskij ricava dall’esperienza nella Rivoluzione tradita: “Perla verità, le classi sono eterogenee, lacerate da antagonismi interni, e non pervengono a fini comuni se non con la lotta di tendenze, di raggruppamenti e partiti”12. Questo vuoI dire che la volontà collettiva non sipuò esprimere se non attraverso un processo elettorale libero, a prescindere dalle forme istituzionali, che combini democrazia partecipativa diretta e democrazia rappresentativa.

Senza costituire la garanzia assoluta contro la burocratizzazione e i pericoli professionali del potere, si possono comunque ricavare dall’esperienza alcune risposte e alcuni orientamenti.

– La distinzione delle classi, dei partiti e dello Stato deve tradursi nel riconoscimento del pluralismo, politico e sindacale, come la sola cosa che consenta il confronto di programmi e di scelte alternativi su tutte le principali opzioni sociali, e non il semplice scambio di opinioni proveniente da istanze di potere locali.

– Una forma di democrazia che combini consigli di produzione e consigli territoriali, con un’espressione diretta e un diritto di controllo, non solo dei partiti, ma dei sindacati, delle associazioni, dei movimenti femminili.

– La responsabilità e la revocabilità degli eletti da parte dei loro mandanti effettivi, non un mandato imperativo che bloccherebbe ogni funzione deliberativa delle assemblee elettive.

– La limitazione del cumulo e del rinnovo dei mandati elettivi e la limitazione della retribuzione dell’eletto/a al livello dell’operaio/a qualificato/a o dell’impiegato/a dei pubblici servizi, per ridurre la personalizzazione e la professionalizzazione del potere.

– Il decentramento del potere e la redistribuzione delle competenze al livello locale, regionale, o nazionale, più vicino ai cittadini, con il diritto di veto sospensivo delle istanze inferiori sulle decisioni che le riguardano direttamente e il ricorso eventuale ai referendum d’iniziativa popolare.

Una democrazia dei produttori liberamente associati è perfettamente compatibile con l’esercizio del suffragio universale. Consigli comunali o assemblee popolari territoriali possono essere formati da rappresentanti di unità di luogo di lavoro e di caseggiato e sottoporre ogni decisione importante al voto delle popolazioni interessate.

Esperienze recenti – quella polacca del 1980-1981, quella del Nicaragua del 1984 – hanno messo all’ordine del giorno la possibilità di un sistema a due camere, una delle quali eletta direttamente a suffragio universale e l’altra in rappresentanza diretta degli operai, dei contadini, più ampiamente delle svariate forme associative del potere popolare. Questa risposta (che potrebbe comprendere negli Stati plurinazionali una camera delle nazionalità) soddisfa teoricamente sia l’esigenza di elezioni generali sia la preoccupazione della democrazia popolare più diretta possibile. Consente di non confondere per decreto la realtà della società e la sfera dello Stato, chiamata a deperire a mano a manoche si espande, si estende e si generalizza l’autogestione.

Questi grandi orientamenti riassumono gli insegnamenti di una storia dolorosa. Non rappresentano né un’arma assoluta contro i pericoli professionali del potere, né una ricetta per ogni concreta situazione. Si può retrospettivamente discutere sulle conseguenze dello scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevichi, della rappresentatività rispettiva di questa Assemblea e del Congresso dei soviet alla fine del 1917, vedere se non sarebbe stato preferibile mantenere stabilmente una duplice forma rappresentativa (una sorta di prolungato dualismo di poteri). Ci si può anche chiedere se non sarebbe stato necessario organizzare subito dopo la fine della guerra civile libere elezioni, con il rischio, in un contesto di distruzione e di pressione internazionale, di assistere al sopravvento dei Bianchi militarmente sconfitti. Ogni situazione particolare dipende da specifici rapporti di forza, nazionali e internazionali. L’intera esperienza storica, in compenso, conferma l’avvertimento lanciato da Rosa Luxemburg fin dal 1918: “Senza elezioni generali, senza libertà di stampa e di espressione illimitate, senza una battaglia di opinioni libera, la vita langue in tutte le istituzioni pubbliche, vegeta, e la burocrazia resta l’unico elemento attivo”. La più ampia democrazia è inseparabilmente una questione di libertà e una condizione di efficacia economica: è la sola che possa permettere la superiorità della pianificazione autogestita rispetto agli automatismi del mercato.

Volontà di potenza o controrivoluzione burocratica?

La sorte della prima rivoluzione socialista, il trionfo dello stalinismo, i crimini della burocrazia totalitaria costituiscono uno dei principali fenomeni del secolo.

Per alcuni, il principio del male risiederebbe nell’essenza malvagia della natura umana, in un’irreprimibile volontà di potenza, che si può manifestare sotto maschere diverse, inclusa quella della pretesa di fare la felicità dei popoli al di là della loro volontà, di imporre loro gli schemi preconcetti di una città perfetta.

L’obiettivo polemico del Libro nero consiste nello stabilire una rigorosa continuità fra Lenin e Stalin, distruggendo “la vecchia leggenda della rivoluzione d’Ottobre tradita da Stalin”; “Gli orrori dello stalinismo sono consustanziali al leninismo” (J. Amalric); “Il precoce impulso criminale spetta a Lenin” (Eric Conan, L’Express, 6 novembre 1977). Avendo omesso di spingere la critica del proprio passato fino a un rigoroso esame della periodizzazione della Rivoluzione russa, degli orientamenti che si sono scontrati nel corso degli anni Venti e Trenta, i responsabili del PCF si accontentano, da parte loro, di un’autocritica vaga e si mettono a parlare dei crimini dello stalinismo come del “tragico prolungamento” dell’evento rivoluzionario (Claude Cabanes, in L’Humanité, 7 novembre 1997). Se un destino implacabile, portatore di disastri del genere, fosse stato in marcia fin dal primo giorno, perché mai pretendere ancora di essere comunisti?

Gli anni Venti: “pausa” o bivio?

Malgrado la reazione burocratica, che comincia molto presto a “congelare la rivoluzione”, malgrado le carestie e l’arretratezza culturale, lo slancio rivoluzionario iniziale si fa ancora sentire per tutti gli anni Venti, nei tentativi pionieristici sul fronte della trasformazione del modo di vivere: riforme scolastiche e pedagogiche, legislazione familiare, utopie urbane, invenzione grafica e cinematografica. È sempre questo slancio a consentire di spiegare le contraddizioni e le ambiguità della “grande trasformazione” operata nel dolore nell’intervallo fra le due guerre, in cui ancora si mescolano il terrore burocratico e il vigore dell’esperienza rivoluzionaria. Non è stata la minore delle difficoltà per riuscire a prendere coscienza del senso e della portata storica del fenomeno. È dunque importante cogliere, nell’organizzazione sociale, nelle forze che vi si costituiscono e vi si confrontano, le radici e le molle profonde di ciò che a volte si è definito come il “fenomeno staliniano”. Lo stalinismo, in circostanze storiche concrete, rinvia a una più generale tendenza alla burocratizzazione, in atto in tutte le società moderne. Si alimenta, essenzialmente, grazie allo sviluppo della divisione sociale del lavoro (soprattutto tra lavoro manuale e intellettuale) e ai “pericoli professionali del potere” che gli sono inerenti. In Unione Sovietica questa dinamica è stata tanto più forte e rapida in quanto la burocratizzazione si è prodotta su una base di distruzione, di penuria, di arcaicità culturale, in assenza di tradizioni democratiche.

Fin dall’origine, la base sociale della rivoluzione era, al tempo stesso, larga e ristretta. Larga, nella misura in cui si basava sull’alleanza tra gli operai e i contadini, che costituivano socialmente la stragrande maggioranza. Stretta, nella misura in cui la componente operaia, minoritaria, venne ben presto assottigliata dalla guerra e dalle perdite della guerra civile. La brutalità burocratica è proporzionale alla fragilità della sua base sociale. È costitutiva della sua funzione parassitaria. Resta pur sempre la rottura, la discontinuità irriducibile nella politica, sia interna sia internazionale, tra l’inizio degli anni Venti e i tremendi anni Trenta. Le tendenze autoritarie hanno sicuramente cominciato ad affermarsi ben prima. Ossessionati dal “nemico principale” (in fondo del tutto reale), dall’aggressione imperialista e dalla restaurazione capitalista, i dirigenti bolscevichi hanno cominciato a ignorare o a sottovalutare il “nemico secondario”, la burocrazia che li minacciava dall’interno e che ha finito per divorarli. Questo scenario inedito è difficile da immaginare. C’è voluto del tempo per capirlo, interpretarlo, ricavarne le conseguenza. Se Lenin ha sicuramente colto il segnale d’allarme rappresentato da Kronstadt, al punto di imprimere una profonda svolta economica, solo più tardi, nella Rivoluzione tradita, Trotskij arriverà a ergere a principio il pluralismo politico sulla base dell’eterogeneità dello stesso proletariato, anche dopo la presa del potere.

La maggior parte delle testimonianze e dei documenti sull’Unione Sovietica o sul Partito bolscevico stesso13 non consentono di ignorare, nello stretto intreccio tra rottura e continuità, la grande svolta degli anni Trenta. La rottura ha di gran lunga il rilievo principale, provata da milioni e milioni di morti per fame, di deportati, di vittime dei processi e delle epurazioni. C’è stato bisogno di scatenare una violenza del genere per arrivare al “Congresso dei vincitori” del 1934 e al consolidamento del potere burocratico.

La grande svolta

Tra il terrore della guerra civile e il grande terrore negli anni Trenta, Nicolas Werth privilegia la continuità. Per questo è costretto a relativizzare il significato degli anni Venti, le scelte che vi si presentano, i contrasti di linea in seno al partito, riducendoli a una semplice “pausa” o “tregua” tra due spinte terroristiche. Lui stesso, peraltro, apporta gli elementi che provano un cambiamento (quantitativo) della scala repressiva e di un mutamento (qualitativo) del suo contenuto. Nel 1929, il piano di “collettivizzazione di massa” fissa l’obiettivo di 13 milioni di aziende agricole da collettivizzare forzatamente.

L’operazione provoca le grandi carestie e le massicce deportazioni del 1932-1933: “La primavera del 1933 segnò sicuramente il culmine di un primo grande ciclo di terrore, che era cominciato alla fine del 1929 con il lancio della dekulakizzazione”. Dopo l’assassinio di Kirov14 comincia, nel 1934, il secondo grande ciclo, contrassegnato dai grandi processi e soprattutto dalla “grande purga” del 1936-1938, l’ammontare delle cui vittime si valuta in 690 000 persone. La collettivizzazione forzata e l’industrializzazione accelerata comportano un massiccio spostamento di popolazioni, una “ruralizzazione” delle città e una vertiginosa massificazione del Gulag. Nel corso del processo, si sviluppa e si rafforza la legislazione repressiva. Nel giugno del 1929, parallelamente alla collettivizzazione di massa, si mette in piedi una riforma di importanza capitale del sistema detentivo: i detenuti condannati a pene superiori ai tre anni verranno ormai trasferiti nei campi di lavoro. Di fronte all’entità incontrollabile delle migrazioni interne, una decisione del dicembre del 1932 introduce i passaporti interni. Poche ore dopo l’assassinio di Kirov, Stalin stila un decreto noto come la “legge del 1° dicembre 1934”, che legalizza le procedure sommarie e fornisce lo strumento privilegiato del grande terrore.

A parte il soffocamento dei movimenti popolari urbani e rurali, il terrore burocratico liquida quanto resta dell’eredità dell’Ottobre. È noto che i processi e le purghe hanno inferto gravi colpi nelle file stesse del partito e dell’esercito. La maggior parte dei quadri e dei dirigenti del periodo rivoluzionario vengono destituiti o giustiziati. Dei 200 membri del ­Comitato centrale del Partito comunista ucraino ne sopravvissero soltanto 3. Nell’esercito, gli arresti raggiunse oltre 30 000 quadri su 178 000. Parallelamente, si ingigantì l’apparato amministrativo indispensabile per questa impresa repressiva e per la gestione di un’economia statalizzata.

Secondo Moshe Lewin, il personale amministrativo è passato da 1 450 000 membri nel 1928 a 7 500 000 nel 1939; l’insieme dei colletti bianchi è passato da 3 900 000 a 13 800 000. Laburocrazia non è una parola vuota, ma diventa una forza sociale: l’apparato burocratico dello Stato divora quanto resta dei militanti nel partito.

La controrivoluzione fa inoltre sentire i propri effetti in tutti i campi: in quello della politica economica (collettivizzazione forzata e sviluppo su grande scala del Gulag); in quello della politica internazionale (in Cina, in Germania, in Spagna); nella politica culturale15

; nella vita quotidiana, con quello che Trotskij ha chiamato il “termidoro domestico”; nell’ideologia (con il cristallizzarsi di un’ortodossia di Stato, la codificazione del diamat – materialismo dialettico – e la stesura di una Storia ufficiale del partito).

Occorre dare il loro nome alle cose, e chiamare perciò controrivoluzione una controrivoluzione, ben altrimenti massiccia, visibile, lacerante nelle misure autoritarie, per inquietanti che potessero essere, assunte nel fuoco della guerra civile. Nicolas Werth, da parte sua, è tormentato tra il riconoscimento di quel che c’è di radicalmente nuovo negli anni trenta e la sua intenzione di fissare una continuità tra la promessa rivoluzionaria dell’Ottobre e la reazione staliniana trionfante. Parla quindi di “episodio decisivo” nell’instaurazione del sistema repressivo, o di “ultimo episodio dello scontro iniziato nel 1918-1922”. “Episodio” o “svolta decisiva”? Bisogna scegliere.

Il partito preso del “continuismo” porta a sorvolare sugli anni Venti, sui loro contrasti e le poste in gioco, quasi si trattasse di una mera parentesi. Relega vagamente in secondo piano i contrasti intorno alle scelte cruciali, sia in materia di politica internazionale (orientamento durante la Rivoluzione cinese, atteggiamento di fronte all’ascesa del nazismo, opposizioni sulla guerra di Spagna), sia in materia di politica interna (opposizione – sia trotskista sia buchariniana – alla collettivizzazione forzata, alternative economiche e sociali proposte in nome di una diversa idea… del comunismo!).

Controrivoluzione e restaurazione

Alcuni sono turbati dall’idea di controrivoluzione, con la scusac he essa non sfocia nella restaurazione della situazione precedente. Il tempo storico non è reversibile, come quello della fisica meccanica. La pellicola non gira al rovescio. DopoTermidoro, Joseph de Maistre, ideologo conservatore sotto la Rivoluzione e buon conoscitore in fatto di reazione, notava già con finezza come una controrivoluzione non sia una rivoluzione in senso inverso, ma il contrario di una rivoluzione. Non si tratta di due processi simmetrici.

Una contro rivoluzione può anche produrre qualcosa di nuovo e di inedito, come nel caso della Germania bismarkiana dopo il fallimento della rivoluzione del 1948. Analogamente, Termidoro non è ancora la restaurazione. L’impero rappresenta una lunga zona grigia, in cui si mescolano le aspirazioni rivoluzionarie e il consolidamento di un ordine nuovo.

In un’analoga zona grigia si sono smarriti tanti sinceri militanti comunisti, impressionati dai successi della “patria del socialismo”, senza conoscerne o senza soppesarne i costi. Negli anni Trenta, sul terrore staliniano si conosceva abbastanza, se lo si voleva, anche se non si sapeva tutto. C’erano le testimonianze di Victor Serge, di Ante Ciliga, il controprocesso presieduto da John Dewey, le testimonianze contro la repressione degli anarchici e del Poumin Spagna. Ma, in quei tempi di lotta antifascista e di “eroismo burocratizzato” (per riprendere la formulazion edi Isaac Deutscher), fu spesso difficile battersi contemporaneamente contro il nemico principale e quello, non poi così secondario, che disfa dall’interno. Molti protagonisti (Jan Valtin, Elizabeth Poretsky, Jules Fourier, Charles Tillon, i sopravvissuti dell’Orchestra Rossa, e tanti altri) recano testimonianza di queste “esistenze lacerate”.

L’Unione Sovietica sotto Stalin, infatti, non è quella della stagnazione brezneviana. Si trasforma velocemente, per impulso di una burocrazia intraprendente. Il segreto di questa energia ha qualche cosa a che vedere con quello dell’energia napoleonica che affascinava Chateaubriand: “Se i bollettini, i discorsi, le allocuzioni, i proclami di Bonaparte si distinguono per la loro energia, quest’energia non gli appartiene personalmente; appartiene al suo tempo, deriva dall’ispirazione rivoluzionaria, che si affievolisce in Bonaparte, perché egli procede in direzione contraria a tale ispirazione!”16. Non è, d’altro canto, la sola analogia di rilievo tra i due personaggi: “La Rivoluzione, che era la nutrice di Napoleone, non tardò ad apparirgli come nemica: egli non smise di combatterla”.

Mai un qualsiasi paese del mondo avrà conosciuto una metamorfosi così brutale come l’Unione Sovietica negli anni Trenta, sotto il pugno di una burocrazia faraonica: tra il 1926 e il 1939, le città sarebbero cresciute di 30 milioni di abitanti e la loro incidenza rispetto al complesso della popolazione sarebbe passata dal 18% al 33%; solo durante il primi piano quinquennale, il loro tasso d’incremento è del 44%, pari cioè a quello tra il 1897 e il 1926; la forza lavoro salariata è più che raddoppiata (passando da 10 a 22 milioni); questo significa massiccia “ruralizzazione” delle città, un enorme sforzo di alfabetizzazione e di istruzione, l’imposizione a tappe forzate di una disciplina del lavoro.

Questa grande trasformazione si accompagna al risorgere del nazionalismo, all’emergere del carrierismo, alla comparsa di un nuovo conformismo burocratico.

In tutta questa confusione, ironizza Moshe Lewin, la società era, in un certo senso, “senzaclasse” perché tutte le classi erano informi, in fusione.17All’interrogativo di fondo di Michail Guefter – una “marcia continua” tra l’Ottobre e il Gulag, oppure “due mondi politicie morali distinti” – l’analisi della controrivoluzione staliniana apporta una risposta chiara. La periodizzazione della rivoluzione e della controrivoluzione russe non è una mera curiosità storica. Essa impone certe impostazioni, orientamenti e compiti politici: prima, si può parlare di errori da correggere, di indirizzi alternativi all’interno di uno stesso progetto; dopo, si tratta di forze e progetti, di scelte organizzative, che si contrappongono. Non si tratta di un litigio in famiglia che consente di esibire a posteriori le vittime di ieri come prova di un “pluralismo comunista” che confonde vittime e carnefici. Una periodizzazione rigorosa consente per esempio, per riprendere l’espressione di Guefter, “alla coscienza storica di penetrare in campo politico”.

Una rivoluzione “prematura”?

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha ripreso vigore una tesi: quella secondo cui la rivoluzione sarebbe stata solo un’avventura condannata perché prematura.

È la tesi sostenuta da Henri Weber su Le Monde (14 novembre 1997). Questa tesi nasce molto presto, con il discorso degli stessi menscevichi russi e con le analisi di Kautsky, fin dal 1921: tanto sangue, lacrime e rovine-scrive allora-si sarebbero risparmiate “se i bolscevichi avessero avuto il senso menscevico dell’autolimitazione a quel che è accessibile, in cui si riveli il maestro”!18

È una formula rivelatrice. Kautsky polemizza contro l’idea di un partito d’avanguardia, ma immagina spesso un partito-maestro, educatore e pedagogo, in grado di regolare a proprio piacimento il corso e il ritmo della Storia. Come se le lotte e le rivoluzioni non avessero anche la loro propria logica. A volerle auto limitare quando si presentano, c’è voluto poco per passare dalla parte dell’ordine istituito. Non si tratta più, a quel punto, di “autolimitare” gli obiettivi del partito, ma di limitare direttamente le aspirazioni delle masse. In questo senso, i socialdemocratici, gli Ebert e i Noske, assassinando Rosa Luxemburg e schiacciando i soviet di Baviera, si sono distinti come virtuosi dell’“autolimitazione”. La presa del potere nell’Ottobre del 1917 dipende dall’incapacità, dopo febbraio, dei borghesi liberali e dei riformisti di fornire una risposta alla crisi della società e dello Stato. Alla domanda: “C’era scelta nel 1917?”, la risposta di Michail Guefter sembra ben diversamente feconda e convincente della tesi della rivoluzione “prematura”: “La questione è fondamentale. Avendo riflettuto molto su questo problema, posso permettermi una risposta categorica: non c’era scelta. Quello che si è fatto allora era la sola soluzione che contrastasse un rimpasto infinitamente più sanguinoso, una sconfitta insensata. La scelta si è posta dopo. Una scelta che non riguardava il regime sociale, la via da intraprendere storicamente, ma che andava effettuata all’interno di quella via. Né varianti (il problema era più ampio), né gradini da salire per raggiungere la cima, ma un bivio, una serie di bivi”. Questi bivi, queste biforcazioni, non hanno smesso in effetti di presentarsi e suscitare risposte diverse e contrapposte: nel 1923, di fronte all’Ottobre tedesco; sulla Nep e la politica economica; sulla collettivizzazione forzata; sull’industrializzazione accelerata e le forme di pianificazione; sulla democrazia nel paese e nel partito; sull’ascesa del fascismo; sulla guerra di Spagna; sul patto tedesco-sovietico. Su ognuna di queste prove si sono scontrati proposte, programmi, linee politiche, che dimostrano la possibilità di scelte e sviluppi alternativi. In verità, la tesi della rivoluzione prematura porta inevitabilmente all’idea di una storia ben ordinata, regolata come un orologio, in cui tutto capita all’ora giusta, al momento giusto. Piomba nell’appiattimento di un rigido determinismo storico, tanto spesso rimproverato ai marxisti, in cui l’infrastruttura determina rigidamente la sovrastruttura corrispondente. Elimina semplicemente il fatto che la storia non ha la forza del destino, è squarciata da avvenimenti che aprono un ventaglio di possibilità, non tutte certe, ma un determinato orizzonte di possibilità.

A leggere oggi gli autori del Libro nero, si ha l’impressione che i bolscevichi, una volta ottenuto il successo del colpo di mano d’Ottobre, si sarebbero aggrappati a ogni costo al potere per il potere. Questo significa dimenticare che essi non hanno mai immaginato la Rivoluzione russa come un’avventura isolata, ma come il primo elemento di una rivoluzione europea e mondiale. Se Lenin – si dice – ha ballato sulla neve al settantatreesimo giorno dalla presa del potere, è stato perché non sperava agli inizi di reggere di più della Comune. Il futuro della rivoluzione dipendeva, per lui, dall’estensione della rivoluzione su scala europea, soprattutto in Germania. Gli sconvolgimenti che hanno scosso, tra il 1918 e il 1923, la Germania, l’Italia, l’Austria, l’Ungheria, stanno a indicare una vera e propria crisi europea. I fallimenti della rivoluzione tedesca, o della guerra civile spagnola, gli sviluppi della Rivoluzione cinese, la vittoria del fascismo in Italia e del nazismo in Germania non erano stabiliti in partenza. Né i rivoluzionari russi sono responsabili delle defezioni, degli abbandoni dei socialdemocratici francesi e tedeschi. Apartire dal 1923, diventa chiaro che i bolscevichi non potevano più contare, a breve scadenza, su un’estensione della rivoluzione in Europa.Si imponeva quindi un riorientamento radicale, che ha costituito la posta in gioco dello scontro tra le tesi del “socialismo in un paese solo” e quelle della “rivoluzione permanente”, che ha lacerato il partito alla metà degli anni venti. Senza contestare l’iniziale legittimità della Rivoluzione russa, alcuni ritengono tuttavia che si basasse su una previsione sbagliata e su una sfida impossibile. Eppure, non si trattava di una predizione, ma di un’operazione che puntava a eliminare le cause della guerra, rovesciando il sistema che l’aveva generata. L’onda d’urto all’uscita della guerra è stata concretamente confermata, dal 1918 al 1923.

Dopo il fallimento dell’Ottobre tedesco, in compenso, la situazione si era stabilizzata, per tutto un periodo.

Che cosa fare allora? Cercare di guadagnare tempo, senza l’illusione di potere “costruire il socialismoin un paese solo”, che è poi crollato? È la sfida dei dibattiti e degli scontri degli anni Venti. È l’intera dimensione politica del problema, il nocciolo della questione.

Sul piano economico e sociale, la Nep ha arrecato un elemento di risposta, ma per applicarla ci sarebbe voluto un personale ben diversamente istruito di quello formatosi in base ai metodi sbrigativi del comunismo di guerra. Sul piano politico, ci sarebbe voluto un orientamento democratico, ricercando una legittimazione maggioritaria attraverso l’espressione elettorale di un pluralismo sovietico. Sul piano internazionale, ci sarebbe voluta una politica internazionalista che non subordinasse, attraverso il Comintern, i diversi partiti comunisti e la loro politica agli interessi dello Stato sovietico. Queste scelte sono state poste, almenoi en parte. Non hanno assunto la forma di tranquille discussioni, ma di scontri spietati. I vinti di quelle lotte non avevano torto. Se, infatti, si tiene così spesso la macabra contabilità delle rivoluzioni, è più difficile calcolare il costo delle rivoluzioni abortite o schiacciate: la non rivoluzione tedesca del 1918-23 e la sconfitta della rivoluzione spagnola del 1937 non sono prive di un nesso con la vittoria del nazismo e i disastri della seconda guerra mondiale.

Per stabilire le reali responsabilità, periodizzare la storia intorno alle grandi alternative politiche, occorre riprendere questo filo e riesaminarlo. Limitarsi a parlare di rivoluzione “prematura” equivale, viceversa, a pronunciare un giudizio da tribunale della storia, anziché cogliere la logica interna dello scontro e delle politiche che vi si scontrano. Le sconfitte non costituiscono, infatti, dimostrazioni d’errore, così come le vittorie non sono prove di verità: “Se il successo fosse considerato l’innocenza; se, procedendo per corruzione fino alla posterità, la gravasse delle proprie catene; se, futura schiava, generata da un passato schiavo, questa posterità corrotta divenisse complice di chiunque avesse trionfato, dove andrebbe a finire il diritto, dove sarebbe il prezzo dei sacrifici? Poiché il bene e il male sono soltanto relativi, ogni moralità svanirebbe dalle azioni degli uomini”. Se non vi è giudizio finale in campo storico, è importante che, passo dietro passo, di fronte a ogni grande scelta, a ogni grande bivio, si tracci la pista di una possibile storia alternativa. È quanto preserva l’intelligibilità del passato e consente di ricavarne insegnamenti per il futuro.

Ciò che, in dieci giorni, ha sconvolto il mondo, non si può cancellare. La promessa di umanità, di universalità, di emancipazione che è emersa dal fuoco effimero dell’evento è “troppo frammista agli interessi dell’umanità” perché la si possa dimenticare. Depositari e responsabili di un’eredità minacciata dal conformismo, abbiamo il compito di creare le circostanze in cui potrà essere “riportata alla memoria”.

Traduzione di Maria Novella Pierini

Bandiera Rossa n° 77 marzo 1998

Documents joints

  1. AA. VV, Le Livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression, a cura di Stéphane Courtois, Caltiman-Lévy, Parigi 1997 (trad it. Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano, 1998).
  2. N. Werth, “Uno Stato contro il proprio popolo, Violenze, repressioni, terrori in Unione, Sovietica”, in op. cit., pp. 43 sgg.
  3. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, vol. II: L’imperialismo, Bompiani, Milano, 1978.
  4. Sugar, Milano, 1964
  5. Marc Ferro, La Révolution de 1917, Albin Michel, Parigi, 1997.
  6. Id., Naissance et effondrement du régime communiste en Russie, Le Livre de poche, Parigi, 1997.
  7. Garzanti, Varese, 1947
  8. Cfr. Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari, 1969.
  9. Cfr. Moshe Lewin, Russia, URSS, Russia, Londra, 1995.
  10. Marc Ferro, Des Soviets au communisme bureaucratique, Gallimard, Parigi, 1980.
  11. Philippe Lacoue-Labarthe, in Lignes, n. 31, maggio 1997.
  12. Mondadori, Milano, 1990.
  13. Cfr. Alfred Rosmer, Moscou sous Lénine, La Découverte, Parigi, 1970; Marcel Liebman, Le Léninisme sous Lénine, Ed. du Seuil, Parigi, 1973, 2 volt.; Boris Souvarine, Staline, aperçu historique du bolschévisme, n.e., Lebovici, 1985; Léon Trotsky, Stalin, cit.
  14. Dirigente del partito a Pietrogrado.
  15. Fr. Varlam Chalamov, Les Années vingt, Verdier, Parigi, 1977 (il libro sottolinea il contrasto tra quegli anni ancora ricchi di fermenti e i tremendi anni Trenta).
  16. François René de Chateaubriand, Mémoires d’Outre-Tombe, Flammarion, Parigi.
  17. Moshe Lewin, Storia sociale dello stalinismo, Einaudi, Torino, 1988.
  18. Karl Kautsky, Von der Demokratie zur Staatsktaverei, cit. da Karl Radek, Les Voies de la Révolution russe, ED, 1972.
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